Patria

di Fernando Aramburu

Fernando Aramburu ci racconta di un paesino alle porte di San Sebastian, una piccola comunità dove tutti si conoscono.

Ci racconta di due famiglie vicine di casa e amiche: Joxan e Txato insieme all’osteria e la domenica in giro in bicicletta, Miren e Bittori, amiche che vanno a far la spesa al mercato e si ritrovano per un caffè a fare quattro chiacchiere, i figli cresciuti insieme.

 

In questa storia c’è un prima e un dopo.

Tutto comincia con delle scritte sui muri.

 

“Spia, oppressore, traditore. Gli avevano scritto di tutto, in euskera e in castigliano, nella sua via, in quelle adiacenti, in piazza. Una campagna di persecuzione in piena regola. Era uscito di casa molto presto con il suo abbigliamento da ciclista e la bicicletta, e non riusciva a credere ai suoi stessi occhi. Txato qui. Txato là. Herriak ez du barkatuko. Così. E quando arrivò in piazza e si aggregò al gruppo dei cicloturisti, notò, cosa?, notò qualcosa, come una freddezza nel saluto. E occhi che evitavano di fissare i suoi.”

Da quando l’ETA lo aveva preso di mira, i paesani e gli amici lo evitavano, quasi fosse colpevole di qualcosa. Ma di che cosa poi? Aveva una piccola ditta di trasporti, qualche dipendente. Aveva smesso di pagare l’ETA sperando che si sarebbe potuto spiegare, aveva fatto investimenti importanti e in quel momento non ne aveva proprio di soldi da dargli, aveva anche cercato di parlare con qualche pezzo grosso dell’organizzazione, ma non c’era riuscito.

Aveva sottovalutato il problema e un giorno, l’avevano ammazzato.

 

Ed è qui che comincia la crepa, la comunità e le famiglie si dividono tra le vittime ed i guerriglieri. Quelli che prima erano amici diventano madri, padri, fratelli o sorelle di qualcuno che ha ucciso o di qualcuno che è stato ucciso. La comunità si sfalda come due placche alla deriva. Nessuna possibilità di comunicare, di comprendere, o di qua o di là.

Bittori se ne deve andare in un altro paese, dove viene anche seppellito il marito. Inizia l’esilio.

 

“Il primo anno Bittori aveva messo sulla lapide quattro portafiori. Li curava con regolarità. Erano belli. Poi per un po’ di tempo non era salita al cimitero. Le piante si erano seccate. Da allora sulla tomba di Txato non c’è niente.

‘Parlo come mi pare e nessuno me lo impedisce, tanto meno tu. Se scherzo? Non sono più come quando eri vivo. Sono diventata cattiva. Be’, cattiva no. Fredda, distante. Se risusciti non mi riconosci. E non credere, la tua amata figlia, la tua preferita, ha molto a che vedere con questo mio cambiamento. Mi dà sui nervi. Come da bambina.’”

Aramburu ci racconta di come Bittori, la moglie di Txato, dopo anni di esilio, voglia rimettere le cose a posto. Ci racconta di come ricucire questo strappo, di come ritornare a essere una comunità senza un di qua ed un di là.

 

Bittori è paziente, ostinata, anche a costo di essere derisa, additata, messa al bando. Bittori è cocciuta, non si fa intimidire, e piano piano riesce a costruire dei ponti che attraversano la faglia, la crepa si ricopre di piccoli gesti di umanità. Quella umanità che non è andata perduta, ma che è possibile ricostruire.

 

“Un uomo può essere una nave con lo scafo in acciaio. Poi passano gli anni e si formano delle incrinature. Di lì passa l’acqua della nostalgia, contaminata di solitudine e l’acqua della consapevolezza di essersi sbagliato e di non poter rimediare all’errore, e quell’acqua che corrode tanto, quella del pentimento che si sente e non si dice per paura, per vergogna.”

 

Aramburu ci regala la storia di una piccola comunità e di come sia riuscita a risanare la ferita più profonda.


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